Zecharia Sitchin

Zecharia Sitchin (1920-2010) nacque in Azerbaijan, all’epoca parte dell’Unione Sovietica, si trasferì in tenera età nella Palestina all’epoca sotto mandato britannico, per spostarsi in seguito a New York. Giornalista di professione, studiò da autodidatta ebraico, sumero e accadico.
Secondo Sitchin, le divinità sumere, gli Anunnaki, sarebbero esseri provenienti da un pianeta, Nibiru, che è sconosciuto alla scienza moderna ma non a quella sumero-babilonese. Questi Anunnaki avrebbero creato la razza umana come manovalanza per estrarre l’oro dalle miniere. L’oro sarebbe servito, secondo l’autore, per proteggere l’atmosfera del proprio pianeta (Sitchin 2006, p. 28).
Ora, non è chiaro né come un elemento pesante come l’oro possa sfuggire dall’atmosfera di un pianeta, né come una presunta società tecnologicamente avanzata non abbia inventato sistemi di recupero, all’interno del pianeta stesso, di questo metallo elementare, soprattutto quando in ballo c’era la propria stessa sopravvivenza! Così come non è chiaro perché creare un’intera specie di esseri senzienti tramite ingegneria genetica, quando sarebbe stato estremamente più efficiente, in termini di costruzione e manutenzione, costruire dei macchinari. Se noi stessi, appena ne abbiamo avuto la possibilità abbiamo sostituito i cavalli con le automobili, ci sarà stato pure un motivo. Questi Anunnaki non dovevano brillare di intelligenza… Soprattutto, però, non è chiaro in quale testo sumero starebbe scritto tutto ciò.
Sitchin basa la sua teoria anche sul sigillo VA 243, riprendendo l’ipotesi di Carl Sagan e Iosif Shklovskii (per cui v. prima parte) e ripetendo il loro stesso errore di scambiare un segno, che ha sempre indicato una stella, con quello che rappresenta il Sole, che invece è sempre stato rappresentato in modo diverso. Non c’è nessun motivo oggettivo per ritenere che quella raffigurazione rappresenti il sistema solare, anzi nonostante vi siano motivi per ritenere il contrario, l’autore speculò lo stesso sull’esistenza di questo fantomatico pianeta, la cui orbita sarebbe estremamente eccentrica e si avvicinerebbe alla Terra solo una volta ogni 3600 anni (p. 27). Una confutazione estremamente dettagliata delle teorie di Sitchin è presente in questo blog (per gli anglofoni suggerisco inoltre questo sito dal nome esplicativo), per ora mi limito a rilevare come, perlomeno ne L’altra Genesi, raramente citi le fonti precise, ma faccia spesso riferimento a fantomatici testi che gli darebbero ragione (es. pp. 22, 26), senza però specificarne il titolo in modo da permettere al lettore di andare a verificare. Non solo non ci è dato, quindi, sapere, dove sarebbe narrata la storia del pianeta, dell’atmosfera e dell’oro necessario per proteggerla, ma neanche perché, ad esempio, il termine che indica la terra e il fango debba essere interpretato come “ovulo di scimmia” (pp. 191-192)!
Sitchin dimostra scarsa familiarità con gli studi critici sulla Bibbia quando afferma, ad esempio (p. 53):
le storie della Genesi sono versioni editate e abbreviate di testi mesopotamici, molto più dettagliati e precisi, a loro volta, già tradotti dall’originale sumero
Questa visione riflette concezioni tardo-ottocentesche dei rapporti fra Bibbia e testi mesopotamici. A riprova che la scienza accademica non è dogmatica come la dipingono i paleoastronautici, tuttavia, nel frattempo la filologia, l’ebraistica, l’archeologia, l’assiriologia, ecc., hanno fatto passi da gigante, per cui quell’interpretazione si è rivelata errata ed è stata nel frattempo abbandonata dalla scienza cosiddetta “ufficiale”, ma non dalla paleoastronautica, che continua a ripetere questo che ormai è diventato una specie di dogma indiscutibile.
Quando afferma (p. 63) che il termine ebraico šamaym (che, dizionari alla mano, significa “cieli”) vuol dire “là sono le acque”, si rifà a una pseudoetimologia presa da un testo rabbinico, presentando però questa interpretazione come un dato di fatto, solo perché è più adattabile a ciò che vuole dimostrare in quel contesto. Non ho le competenze per giudicare la sua attendibilità sull’accadico e il sumero, ma certamente con l’ebraico si prende più di qualche libertà, come nel caso appena visto e anche nel caso, ad esempio, di Anaqim e Nefilim, nomi da lui interpretati liberamente, pur dicendo “esattamente”, come «coloro che sono discesi dal cielo sulla terra» (p. 28).
In conclusione, dimostra di interpretare in senso astronomico dei testi antichi che però parlano di tutt’altro, come ad esempio il cilindro VA 243, che non si riferisce affatto del sistema solare, a meno di non ammettere che solo in quel sigillo, unica eccezione in millenni di storia, quel segno indichi il Sole. Ovviamente Sitchin non spiega perché proprio in questo caso bisognerebbe fare un’eccezione. D’altra parte, quei puntini messi così non sarebbero neanche una raffigurazione fedele del sistema solare (per cui v. conclusioni).
Partendo dal presupposto che un determinato testo sia un’allegoria di qualcos’altro, magari più vicino al nostro modo di vedere, si può far dire al testo quello che si vuole e poi si ha l’impressione falsata che i testi sumeri contengano chissà quali verità, quando invece si tratta solo di interpretazioni estremamente soggettive, spacciate per scoperte scientifiche.
Mauro Biglino
Nato a Torino nel 1950, Mauro Biglino cominciò a interessarsi all’ebraico verso i cinquant’anni e collaborò presso le Edizioni San Paolo in un progetto di traduzione della Bibbia ebraica. Da un’intervista concessa a un inviato del CESNUR (p. 34), risulta che l’autore:
«ha contattato un insegnante privato di Torino che gli ha impartito 20-25 lezioni serali (alle 21)» […] «Quando l’insegnante ha avuto gravi problemi di salute Biglino ha cominciato a studiare autonomamente con i manuali della Società Biblica Britannica, che ha usato per otto mesi»
Per mettere le cose in proporzione, 20-25 lezioni sono meno delle ore di lingua straniera che si studiano in un normale anno scolastico, e otto mesi di studio da autodidatta certo non forniscono un’ottima padronanza di una lingua, come dimostra infatti il suo modo errato di pronunciare e traslitterare diversi termini (es. ṣelem, šadday), errori che non farebbe neanche uno studente al primo anno. Il lavoro compiuto alle Edizioni San Paolo, cioè la traduzione interlineare, richiede d’altronde solo conoscenze basilari di grammatica, cioè il minimo indispensabile per individuare la radice di una parola al fine di ritrovarla sul dizionario e riportarne la traduzione.
L’autore cessò la sua collaborazione con la casa editrice non appena esordì nella paleoastronautica nel 2010 col suo lavoro intitolato Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia, a cui sono seguite diverse altre opere. Nella descrizione della sua pagina Facebook ufficiale, il cui nome è il titolo del libro di esordio, c’è scritto, tuttavia, che si occupa di testi sacri da oltre trent’anni, il che ha portato diversi suoi lettori a pensare erroneamente che abbia avuto una lunga carriera di traduttore. Quest’ultima, invece, può essere durata al massimo un decennio, dato che, come dichiara egli stesso nell’intervista già citata, cominciò ad occuparsi di ebraico all’età di 50 anni, cioè intorno al 2000.
Spesso fa riferimento a presunti teologi, che avrebbero falsificato il testo biblico per introdurvi a forza il monoteismo. Questi teologi, tuttavia, non mi pare siano mai citati espressamente, un po’ come i fantomatici “testi sumeri” di Sitchin e, soprattutto, in nessuno dei libri che ho avuto modo di leggere, presenta prove concrete di questa presunta manomissione. In questa polemica costruita ad arte, l’autore dichiara di limitarsi a leggere quello che c’è scritto, ma di fatto finisce per comportarsi esattamente come i suoi fantomatici avversari. Probabilmente senza volerlo, infatti, forza le sue traduzioni in modo da far dire al testo quello che vuole lui.
Errori e distorsioni nelle traduzioni dall’ebraico
Ad esempio ipotizza che il termine ruaḥ, che stando ai dizionari vuol dire “vento” e “spirito”, faccia riferimento a volte a un ipotetico “mezzo volante”, basandosi su un’etimologia profondamente sbagliata da diversi punti di vista e senza fornire un criterio oggettivo per giustificare questa scelta, ad esempio non mostrando dove questo ruaḥ sarebbe descritto fisicamente come un mezzo. Stando all’autore, la sua traduzione del termine “ruaḥ” come “mezzo volante” sarebbe valida, però, solo in alcuni punti, ma non in altri, a causa della polisemia dell’ebraico, sulla quale si tornerà a breve.

Secondo lui, la Bibbia non parlerebbe peraltro neanche di eternità, concetto che sarebbe stato introdotto dai presunti e immaginari teologi, dato che il termine ‘olam indicherebbe un tempo lungo e indeterminato. Se in un dizionario l’autore ha letto che le-‘olam non debba essere tradotto come “eternità”, ci sono tuttavia altri due dizionari, il Brown – Driver – Briggs e il Clines, che oltre a quello di “lungo tempo indefinito”, riportano anche “eternity” fra i significati possibili dell’espressione.
Per inciso, il dizionario che secondo Biglino sconsiglierebbe di tradurre come “eternità” è quello della Società Biblica Britannica e Forestiera, cioè un’organizzazione di stampo religioso. I dizionari qui presentati, invece, sono compilati da studiosi ebraisti laici. Quindi, ancora una volta, Biglino non sembra seguire un criterio coerente, ma sembra scegliere le informazioni in base a quanto gli possano servire per dimostrare le proprie tesi, usando all’occorrenza anche fonti teologiche, quando fanno comodo, e tralasciando quelle laiche, se mostrano particolari scomodi.

Ammesso e non concesso che le-‘olam non significhi “eternità”, tuttavia, così come in italiano abbiamo i due sinonimi “eterno” e “perpetuo”, in ebraico esiste anche il sinonimo neṣaḥ (נצח), che pure significa “eternità” (“everlastingness“), sempre secondo il dizionario Brown – Driver – Briggs, che nel caso di ṣelem l’autore stesso ritiene attendibile.
Quindi, l’ebraico sarebbe, per Biglino, a tratti flessibilissimo ed estremamente polisemico da far diventare “vento, spirito” come “mezzo volante”, ma poi diventerebbe improvvisamente rigido e smetterebbe di essere polisemico al punto da non poter ammettere che “lungo tempo indefinito” possa significare “eternità”, che sono praticamente sinonimi. Usare la polisemia solo quando conviene, lungi dall’essere esempio di onestà intellettuale, è un’operazione che porta inevitabilmente a stravolgere il testo e fargli dire quello che si vuole.
Quindi, l’affermazione secondo cui non vi sarebbe eternità nella Bibbia e che questa sarebbe un’invenzione teologica è portata avanti con argomentazioni a mio avviso molto faziose e poco obiettive.
Pur di dimostrare a tutti i costi la sua tesi di fondo per cui non vi sarebbe creazione nella Bibbia, sostiene (anche sulla scia di Sitchin) che il termine raqi‘a non significherebbe “firmamento”, ma indicherebbe una diga. Così facendo, è costretto a forzare ulteriormente il testo affermando che il termine ebraico che indica i luminari, cioè il Sole e la Luna, non indicherebbe in questo brano i due corpi celesti ma dei sistemi di illuminazione artificiali fissati sulla presunta diga. Tuttavia non è spiegato il motivo oggettivo filologico per cui quel termine, solo in quel caso, assumerebbe un significato diverso da tutte le altre volte in cui appare. Quindi, per ammettere la traduzione proposta da Biglino, bisognerebbe riadattare a poco a poco tutto il dizionario e riempirlo di eccezioni che avverrebbero, guarda caso, proprio nei punti in cui i testi biblici si adatterebbero meglio all’ipotesi paleoastronautica che l’autore vuole forzarvi.
La polisemia è invocata, quindi, solo quando fa comodo, senza che l’autore si preoccupi di fornire un criterio oggettivo a priori per distinguere quando l’ebraico sarebbe ampiamente polisemico e quando strettamente rigido. Un discorso analogo vale quando sostiene che la Bibbia sarebbe stata palesemente manipolata, salvo poi usarla, quando gli fa comodo, come supporto delle proprie teorie, senza però dimostrare come i brani da lui usati siano proprio quelli scampati alla manipolazione e quindi affidabili. Per poter ritenere plausibili o anche solo degne di essere prese in considerazione le ipotesi di Biglino, bisognerebbe ammettere una serie incredibile di coincidenze e di eccezioni: bisognerebbe ipotizzare che i brani da lui usati siano proprio quelli non manipolati e poi che i termini ebraici abbiano assunto dei significati diversi proprio nei passi che darebbero ragione alle sue ipotesi e solo in quei passi. Non solo non dimostra il perché di queste eccezioni, ma non dimostra neanche che criterio usi per giudicare manipolato un brano o una traduzione, per cui verrebbe da pensare che l’unico criterio sembri essere basarsi su quanto faccia comodo o no a quello che si vuole dimostrare in partenza.
Secondo l’autore “i teologi”™ nasconderebbero dietro l’interpretazione allegorica il vero significato letterale dei testi, che racconterebbero dell’incontro degli autori biblici con civiltà evolute, che lui chiama Elohim, forte del fatto che questo nome ebraico di Dio ha una forma plurale.

La sua ricostruzione presenta, tuttavia, diverse inconguenze. Prima di tutto, se dovessi nascondere una verità dietro a un testo, mi sembrerebbe più lineare scrivere un documento che letto alla lettera porterebbe fuori strada e invece ne tramanderei oralmente il vero significato solo a persone fidate. Oppure terrei due versioni del testo, una nascosta contenente la verità e una redatta per gli altri. Questi presunti teologi, invece, “nascondendo” la presunta verità nell’interpretazione letterale e tramandandosi oralmente la versione “ufficiale” da divulgare, fanno in realtà tutto il contrario di quello che sarebbe molto più prudente e più sicuro fare. Inoltre, visto che nel testo letterale ci sarebbero le prove di questa verità che volevano nascondere, questi presunti teologi, nonostante abbiano avuto più di un millennio di tempo a disposizione, avrebbero fatto un lavoro di redazione poco accurato, lasciando gli indizi della presunta verità in piena luce. Insomma il comportamento di questi presunti teologi risulta altrettanto contorto e maldestro di quello dei presunti alieni di Sitchin, il che fa pensare che in entrambi i casi ci troviamo di fronte a entità fittizie create solo come spauracchi o personaggi di comodo.
Il collegamento dell’autore torinese con il suo omologo azero è infatti abbastanza stretto, almeno idealmente: di fatto, almeno nei suoi primi libri, adatta la Genesi alle illazioni di Sitchin, cioè quelle secondo cui l’essere umano sarebbe stato creato tramite ingegneria genetica da “quelli lì”™ in modo da avere degli schiavi per estrarre oro, basandosi anche sull’assunto, che abbiamo visto essere sbagliato, per cui la Bibbia non sarebbe altro che una riedizione di testi sumeri. Il racconto della tentazione di Adamo ed Eva viene così interpretato dall’autore: il serpente della Genesi rappresenterebbe uno scienziato alieno che, impietosito verso i primi umani per la loro incapacità di riprodursi, concesse loro l’uso della sessualità. Ora, poco importa se questa interpretazione sia stata presa da Sitchin, dal contattista George Adamski o persino in parte da sant’Agostino, fatto sta che quella con alieni e DNA sembra essere presentata come lettura letterale di un passaggio che in realtà parla solo di alberi, di un frutto e di un serpente parlante. Se si vuole invece interpretarlo, allora lo si interpreti come si vuole, ma diventa contraddittorio, nonché poco onesto intellettualmente, far dire al testo un significato che non ha, presentandosi però allo stesso tempo come interprete letterale.

Il “fare finta che”™
Secondo Biglino, infatti, “i teologi”™ non fornirebbero un criterio oggettivo per distinguere i passi biblici che vanno presi alla lettera da quelli che vanno interpretati allegoricamente, per cui decide di “fare finta che”™ gli autori biblici volessero dire esattamente quello che hanno scritto. Questo è definito dall’autore nel suo sito ufficiale (v. immagine in alto) addirittura «l’unico atteggiamento corretto»! In realtà non è affatto l’unico, né tantomeno è corretto.
A molti suoi lettori, la sua sembra un’opera pioneristica mai intentata prima, ma una lettura non teologica della Bibbia, in realtà, è portata avanti già dal XVII secolo, in ambienti accademici e persino in quelli religiosi. In questi quattro secoli, le discipline umanistiche, quali la filologia, la linguistica, ecc., hanno sviluppato metodi e tecniche, quali la critica delle fonti, la critica testuale, ecc., volti allo studio critico e senza preconcetti dei documenti, qualsiasi essi siano. Questi metodi e tecniche sono infatti applicati indistintamente a tutti i testi, non solo a quelli sacri, e godono quindi di neutralità e imparzialità. Il metodo storico-critico elaborato in questi quattro secoli cerca di avvicinarsi quanto più possibile al significato originale dei testi, basandosi quanto più possibile su prove e con l’aiuto di discipline quali l’archeologia, l’antropologia, la storia, ecc. Persino la Chiesa cattolica fa ormai uso di questi strumenti, già dalla fine dell’Ottocento!
Nonostante si presenti come un innovatore, quindi, Biglino arriva in ritardo e sfonda una porta aperta ormai già da secoli. Chiede a gran voce un criterio oggettivo, ma lui stesso si esime dall’acquisirlo e dal fornirlo, dato che rigetta l’approccio filologico e storico-critico. Intanto, omette di spiegare prima di tutto perché appiattire tutto a un senso letterale possa essere un vantaggio rispetto ai metodi critici ben collaudati, poi non dice perché lo applichi solo nei brani in cui fa comodo, riservandosi poi di sovrainterpretarne altri, come nel caso del serpente che, all’occorrenza, diventa uno scienziato alieno. Infine, visto che la lettura strettamente letterale applicata a qualsiasi altro testo, come la Divina Commedia o i Promessi sposi o l’Inno di Mameli, porterebbe a travisarne totalmente il messaggio e le intenzioni dell’autore (l’Italia sarebbe una persona in carne ed ossa che indosserebbe l’elmo di Scipione l’africano sulla testa? quale testa?) non si spiega come mai solo con la Bibbia invece questo metodo dovrebbe rivelarsi improvvisamente valido. Come nel caso delle traduzioni da lui proposte, si dovrebbe fare ancora una volta un’eccezione in modo da far rientrare tutto nello schema che si è prefisso.
Inoltre, il “fare finta che”™ è usato solo quando fa comodo, perché tace ad esempio su episodi scomodi quali l’asina parlante di Balaam (Nm 22,28). Ancora una volta, non viene fornito a priori il criterio per distinguere quando la Bibbia andrebbe presa alla lettera e quando no, il che, ironia della sorte, è proprio quello di cui accusa i teologi™ di fare. È quindi fuorviante chiamare “metodo” questo approccio, dato che viene usato solo saltuariamente e senza che venga fornito un criterio preciso su quando usarlo e quando no, senza contare il fatto che risulta del tutto inconsistente e contraddittorio quando applicato su un qualsiasi altro testo.
Inoltre, fatto non di poco conto, tutto il suo lavoro si fonda su diverse ipotesi di partenza che non sono dimostrate e, nel momento in cui non le si ammettono, tutto il suo impianto teorico cade: nel momento in cui si finisce di “fare finta”™ e si fa quindi sul serio, il tutto crolla come un castello di carte. Il problema sorge, tuttavia, quando queste ipotesi vengono confuse con la realtà, per cui si rimanda all’immagine qui sotto.

Da un lato usa la premessa che la Bibbia dica il vero, ma questa premessa diventa poi la tesi da dimostrare (“La Bibbia è un libro di storia”). Questo, però, invece di essere un procedimento logico del tipo premessa, ragionamento, conclusione, risulta un ragionamento circolare per cui l’ipotesi diventa improvvisamente la tesi. Questo modo di procedere, che consiste praticamente in una tesi che si autodimostra, risulta quindi del tutto non valido in quanto totalmente autoreferenziale. Altrettanto soggettivo è il suggerimento di lasciare “non tradotti” dei termini, perché questo lascia l’interpretazione di un testo all’immaginazione del lettore, piuttosto che a una ricerca oggettiva fatta sul consultare i dizionari o sui testi stessi. Un testo va spiegato tramite la cultura che l’ha prodotto, non tramite quella di chi lo legge, che può esserne distante a volte anche migliaia di chilometri e di anni, come nel caso della Bibbia.
Infine, come si può vedere nella didascalia all’immagine più in alto e come si riscontra continuamente nei suoi libri e nelle sue conferenze, il suo costante tentativo di trovare riscontri nel mondo accademico si dimostra in realtà molto selettivo e frutto di quello che viene definito “cherry picking”, che vuol dire scegliere solo le ciliegie più buone, lasciando nel cesto quelle che piacciono meno. Fuor di metafora, mostrando in modo molto parziale le poche volte in cui degli studi sembrano confermare quanto si vuole sostenere, salvo poi trascurare la stragrande maggioranza di dati che lo smentiscono, lascia credere che il mondo accademico avalli le sue tesi. Ma non c’è niente di più falso.
Inoltre, ogni volta che l’autore parla di una presunta conferma dal mondo accademico, questa o proviene da specialisti che non sono ebraisti o storici delle religioni, oppure, quando ciò accade, riguarda sempre questioni del tutto marginali, come una possibile traduzione di un termine o una probabile interpretazione di un altro. In ogni caso, non entra mai nel merito del punto centrale delle sue “teorie”, perché non conviene, dato che non c’è nessuno storico che abbia mai dimostrato con prove certe le teorie paleoastronautiche, così come non c’è nessun ebraista che possa condividere le sue traduzioni arbitrarie: basta infatti cercare il nome dell’autore sul forum “consulenza ebraica” per leggere le numerose critiche fatte da persone che conoscono molto bene l’ebraico, anche come lingua madre, in qualche caso. Tra l’altro, anche nel confronto con un rabbino e alcuni teologi di diverse confessioni cristiane che ebbe luogo a Milano nel Marzo 2016, reperibile su YouTube e la cui la trascrizione è scaricabile dal suo sito ufficiale, nessuna delle domande poste è entrata mai nel merito delle “teorie” dell’autore: non c’è stato, quindi, un vero confronto sui temi centrali.
Conclusioni
In conclusione, le ipotesi presentate dall’autore sembrano basate su traduzioni forzate, libere interpretazioni e su procedimenti arbitrari e autoreferenziali, che vengono peraltro applicati dal suo stesso fautore in modo saltuario e i cui risultati sono presentati fra mezze verità e affermazioni tendenziose. L’autore si inserisce a pieno titolo nel filone della paleoastronautica, facendo propri i “metodi” di questa pseudoscienza, che sono basati sul bias di conferma invece che su prove oggettive. In mancanza di prove, tuttavia, non c’è nessun motivo per presumere che i testi biblici siano resoconti di fatti reali: senza prove, credere che la Bibbia dica il vero non è scienza, è fede. Se poi un giorno le prove spunteranno, magari presentate senza errori, distorsioni o mistificazioni, chi scrive sarà ben felice di adattarsi alle nuove scoperte, così come ha sempre fatto.
Bibliografia
- Mauro Biglino, Il libro che cambierà per sempre le nostre idee sulla Bibbia, Uno editori 2010.
- Jason Colavito, Faking History. Essays on Aliens, Atlantis, Monsters & More, CreateSpace 2013 (ebook).
- Zecharia Sitchin, L’altra Genesi, Piemme 2006 (ed. or. Genesis revisited, 1991).
Per un’introduzione allo studio critico della Bibbia e del suo ambiente storico:
- Giovanni Filoramo (a c. di), Ebraismo, Laterza 1999.
- Mario Liverani, Oltre la Bibbia. Storia antica di Israele, Laterza 1993.
- Paolo Merlo (a cura di), L’Antico Testamento. Introduzione storico-letteraria, Carocci 2008.
- Israel Finkelstein e Neil A. Silberman, Le tracce di Mosé. La Bibbia tra storia e mito, Carocci 2011.
- Israel Finkelstein, Il regno dimenticato. Israele e le origini nascoste della Bibbia, Carocci 2014.
Sulla storia del Vicino Oriente antico:
- Giovanni Pettinato, Sumeri, Rusconi 1992.
- Wolfram Von Soden, Introduzione all’orientalistica antica, Paideia 1989.
- Mario Liverani, Antico Oriente. Storia, Società, Economia, Laterza 1988.