Il coraggio delle polemiche a distanza (prima parte)

Sono stato di recente contattato in privato da uno degli autori destinatari del mio precedente articolo. All’inizio, visto che si era dimostrato amichevole, avevo persino proposto un accordo per cui mi dimostravo disponibile a eliminare il mio articolo, purché facessero sparire le varie pagine che hanno sparso in giro contenenti un testo che mi diffamava, anche se in modo molto velato. Poi ci sono stati ulteriori sviluppi e uno dei due mi ha detto che invece replicherà ancora al mio articolo e che diffonderà in Rete e a mezzo stampa la sua risposta, oltre che il loro testo da me contestato nel suddetto articolo.

Per quanto mi riguarda, quindi, lascio l’articolo precedente e con questo rispondo anticipatamente a eventuali future repliche. Una volta pubblicato questo articolo, considero chiusa la questione, dato il loro comportamento poco corretto dimostrato nei miei confronti. Comportamento poco corretto messo in atto non solo da loro due, ma anche del loro co-autore più celebre, il quale in un video dice che quella che è venuta fuori nel loro libello, parole testuali, “è verità”.

Prima di tutto, quella che è spacciata come “verità” è, come spero di aver dimostrato nel precedente articolo, frutto di una pesante decontestualizzazione, non solo delle fonti talmudiche, ma anche degli studi recenti. Questa decontestualizzazione è finalizzata a sua volta a una generalizzazione del tutto ingiustificata, metodologicamente sbagliata (e a mio avviso anche tendenziosa) sull’ebraismo e sugli ebrei in generale.

Nel video che ho segnalato sopra, si sente anche Biglino affermare che chi ha fatto quegli attacchi “durissimi” (cioè il sottoscritto) voleva nascondere questa (presunta) palese verità ed è stato sommerso di documentazione. Ma questo è palesemente falso: il mio commento sotto quel video è rimasto tuttora senza risposta, così come anche un altro commento in cui comunicavo di aver risposto entrando nel merito delle questioni. Vorrei far notare che nella discussione era intervenuto lo stesso Biglino, che quindi non può non essere venuto a conoscenza della mia replica, che però è rimasta a sua volta senza risposta. Invece di rispondere quindi nelle sedi opportune, i due (o i tre?) hanno invece pensato bene di diffondere la loro risposta in vari gruppi e pagine in cui io non ero neanche iscritto e questa risposta, peraltro, l’ho scoperta per puro caso.

Quindi, al di là di questioni tecniche sui termini ebraici, la profonda scorrettezza che hanno dimostrato nel loro atteggiamento mostra come cerchino non il confronto, ma solo lo scontro e la sterile polemica. Scontro neanche diretto, peraltro, ma solo a distanza, vantandosi dei presunti successi dei propri alleati (alleati quando fa comodo) e gettando fango sull’interlocutore, che però era del tutto ignaro delle loro presunte risposte. Presunte risposte che vengono rivolte, così, non apertamente e in faccia al diretto interessato, ma solo al pubblico lì presente in quel momento, che magari non sa niente della faccenda o che conosce solo la loro versione.

Se entriamo poi nel merito del contenuto della loro risposta, quella che hanno usato costoro, che l’abbiano fatto apposta o meno, è una tecnica largamente usata nelle pseudoscienze, chiamata “Gish gallop“, che consiste nel sommergere l’interlocutore di una valanga di dati, più o meno falsi, per smontare i quali ci vuole una quantità di tempo enorme. Sono anche personalmente convinto che non lo facciano con malizia e che davvero non si accorgano della decontestualizzazione che puntualmente mettono in atto, ma è un dato di fatto che hanno scritto un pdf di nove pagine in risposta a un mio commento di tre righe.

Papiro che, nonostante venga lasciato intendere il contrario, non è stato portato alla mia attenzione del destinatario, facendosi quindi belli agli occhi del pubblico lasciando intendere che io non abbia risposto, omettendo (colpevolmente o meno) di dire che invece era stato scritto e diffuso a mia insaputa e alle mie spalle.

Alla fine, sarebbe bastata una riga in cui mi facevano notare che il termine usato in quel passo biblico era “ṭaph”, non “yaldah”, e avrei ammesso tranquillamente il mio errore, come peraltro ho già fatto nel mio precedente articolo. Tra l’altro “yaldah”, checché ne dicano loro e come ho dimostrato usando un dizionario redatto da gente molto più autorevole di loro e di me, non vuol dire solo “ragazza” ma anche “bambina”. Quindi, l’affermazione che mi contestano e per la quale mi tacciano di ignoranza in materia di ebraico in realtà è sostanzialmente corretta, anche se in quel contesto era imprecisa e usata a sproposito, cosa che ammetto tranquillamente.

Comunque, “yaldah” o meno, le altre mie obiezioni, che riassumo brevemente qui, restano comunque valide:

  •  usare alcuni passi del Talmud per interpretare un passo biblico scritto secoli prima, in un contesto storico totalmente diverso e dove non si parla affatto di rapporti sessuali, da un punto di vista metodologico storiografico, non costituisce prova di niente: in altre parole, la loro ricostruzione non ha alcun valore storico e storiografico;
  • gli studiosi da loro citati, anche nei brani da loro stessi riportati, non sempre dànno ragione alla loro tesi, quindi dimostrano di selezionare solo quello che fa comodo e capire solo quello che vogliono capire dai testi che leggono;
  • anche ignorando i punti precedenti, è profondamente sbagliato generalizzare e lasciar intendere tra le righe che tutti gli ebrei attuassero o attuino tuttora certe pratiche.

Insomma, le loro argomentazioni sono il regno della decontestualizzazione e della generalizzazione, le quali sono sbagliate non solo dal punto di vista metodologico, ma anche da quello etico e dell’onestà intellettuale. D’altronde, nessuno dei tre mi pare abbia una formazione storica o ebraistica riconosciuta (concedo il beneficio del dubbio solo a uno dei tre), quindi è normale che cadano negli errori metodologici tipici degli storici dilettanti autodidatti e improvvisati.

Ora che invece sono venuto a sapere di quella risposta e vedendo come a loro volta reagiscono alle critiche, e in seguito a uno scambio avvenuto in privato, mi rendo conto che è del tutto inutile continuare un confronto con persone che fanno della decontestualizzazione e della generalizzazione il proprio modus operandi. Continuare con costoro un normale dialogo sulle questioni tecniche sarebbe l’equivalente di cercare un regolare incontro di pugilato con chi, mancando di tecnica e di un allenamento formale, insiste a colpire in modo sleale sotto la cintura o alle spalle.

Comportamenti simili sono posti in essere anche dal loro più celebre co-autore, come si vedrà nella seconda parte.

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