Premessa
Nella prima parte di questa serie di articoli ho dato la mia definizione di pseudostoria, mostrando la sua caratteristica principale: quella di basarsi su presunte prove, che in realtà si rivelano tutt’altro (ad esempio, semplici ipotesi o prove contraffatte). A questa caratteristica, va aggiunto un altro aspetto che la rende pseudostoria e non un semplice insieme di ipotesi sbagliate: invece di essere proposta alla comunità scientifica prima di un’eventuale pubblicazione (come accade con la storiografia seria), viene venduta direttamente al grande pubblico.
Storia e pseudostoria sono quindi paragonabili solo in apparenza, dato che hanno metodologie e obiettivi molto diversi: la prima è alla costante ricerca delle prove necessarie per ricostruire il passato, la seconda sembra essere interessata più al marketing che alla ricerca e all‘analisi seria delle evidenze.
Già questo basterebbe a distinguere chiaramente l’una dall’altra. Per sovrammercato, si presenterà qui una serie di criteri che (spero) aiuteranno a distinguere se un’ipotesi in cui ci si imbatte è storia seria o pseudostoria. Questa lista è ispirata a quella presentata da Garrett G. Fagan nel suo saggio Diagnosing pseudoarchaeology, all’interno del suo Archaeological Fantasies (Routledge, New York 2006, pp. 23-46). La lista di Fagan rappresenta tuttavia solo un punto di partenza, per cui è stata modificata, adattata e ampliata per l’occorrenza.
È opportuno rimarcare che questi criteri non vanno presi rigidamente. In altre parole, non basta la presenza di uno o due di queste caratteristiche per far sì che un’ipotesi sia considerabile automaticamente pseudostoria, tuttavia più elementi vi sono riscontrabili, più è probabile che essa lo sia.
1. “Prove” che in realtà non sono prove
Questo aspetto è così essenziale che, anche se l’ho ripetuto più volte, vale la pena di ribadirlo ancora una volta, prima tutto il resto. Le presunte “prove” portate dagli pseudostorici si basano o su cose scritte in un testo o su decontestualizzazioni di raffigurazioni e manufatti. In ogni caso, non si tratta di prove oggettive, ma di interpretazioni soggettive che, per essere considerate prove a tutti gli effetti, richiederebbero una dimostrazione concreta e indipendente della loro veridicità. Dimostrazione che, ovviamente, gli pseudostorici si guardano bene dal fare, preferendo ricorrere invece a metodologie farlocche (per cui v. punto 3).
2. Parlare di ciò che è ipotetico come se fosse reale
Strettamente legato al punto precedente, vi è quello di trattare gli enti ipotizzati (es. civiltà antiche, alieni, pianeti, ecc.) come base per ulteriori ipotesi. In altre parole, ciò che viene ipotizzato è in fondo considerato reale e non semplicemente ipotetico.
Come regola spannometrica, se ciò che viene ipotizzato può essere rimpiazzato con “Babbo Natale” senza che questa sostituzione cambi la sostanza dell’ipotesi, allora quest’ultima è probabilmente pseudostoria. In altre parole, se il tuo interlocutore ti accusa di non avere la mente abbastanza aperta, se puoi controbattere dicendo che è lui a non avere la mente abbastanza aperta da prendere in considerazione l’idea che invece possa essere stato Babbo Natale, allora probabilmente hai davanti uno pseudostorico. Con la storia seria, questa tattica non funziona perché uno storico si basa su prove direttamente collegabili a qualcosa la cui esistenza è stata dimostrata indipendentemente (es. l’impero romano).
3. Metodi farlocchi
Ho già detto diverse volte che la differenza fondamentale che distingue la storia dalla pseudostoria è il metodo usato. Il basarsi sulle evidenze è solo il primo passo. Poi le evidenze devono essere analizzate con metodi ben collaudati e improntati a prudenza, il che vuol dire che bisogna stare attenti a non saltare alle conclusioni, ma attenersi alla realtà dei fatti. Gli pseudostorici, invece, si ritengono inventori di metodi farlocchi quali il “realismo fantastico” o il “fare finta che”, i cui stessi nomi sono indicatori di qualcosa di distaccato dalla realtà.
Personalmente non vedo quale metodo possa essere migliore del raccogliere le evidenze, analizzarle nel contesto e poi trarre le conclusioni. Qualsiasi altra cosa mi sembra solo un pretesto per convincere l’interlocutore senza ricorrere a prove oggettive.
4. Vendere direttamente al pubblico
Come ho detto nella premessa, questa è l’altra discriminante essenziale per distinguere la storia dalla pseudostoria. Nella ricerca accademica, le nuove scoperte, o comunque le nuove ipotesi, vengono sottoposte a quel procedimento noto come revisione paritaria. In poche parole vengono sottoposte in maniera anonima a due o tre revisori altrettanto anonimi che, prima della pubblicazione, fanno notare se ci sono errori metodologici da correggere. Gli pseudostorici, invece, vendono le loro presunte scoperte direttamente al grande pubblico, che ovviamente non è in grado di accorgersi di eventuali errori, dato che per fare ciò sono richieste conoscenze specialistiche degli argomenti trattati.
A mio avviso, se gli pseudostorici fossero davvero interessati al confronto e a saggiare la validità delle loro ipotesi, sottoporrebbero i loro scritti a revisione paritaria. Per come la vedo, quello di vendere direttamente al pubblico è solo un modo per sottoporre i propri scritti all’attenzione di chi, a differenza degli accademici, non è in grado di notare gli errori, anche madornali, che sono presenti in tutte le teorie pseudostoriche che ho avuto modo di esaminare finora.
5. Appello all’emotività
Per poter vendere i prodotti editoriali, è necessario far leva sull’emotività. D’altronde si sa che il marketing si basa sulle emozioni, non sulla logica. Se i testi accademici sono pieni di freddi dati, quelli pseudostorici, invece, fanno leva sull’emotività. Parte di questo pacchetto, come ho detto altrove, è quello di far sentire il lettore come parte di un’élite privilegiata di persone che avrebbe compreso alcune verità di cui la maggior parte delle persone sarebbe inconsapevole. Oltre a questo, l’autore di pseudostoria si dipinge quindi come un eroe che starebbe svelando delle verità che qualcuno ha tenuto nascoste fino a quel momento, generando così identificazione da parte di un pubblico che ritiene di poter insegnare il mestiere agli accademici.
6. Catastrofismo
Un particolare appello all’emotività è quello del catastrofismo. Gli pseudostorici sembrano mostrare una certa predilezione per il genere letterario, prettamente religioso, noto come “apocalittica”. Lo stesso Impronte degli dei di Graham Hancock (ed. or. Fingerprints of the gods, 1995) fa tutto un discorso di più di 600 pagine, parlando di una civiltà antica, solo per concludersi con un avvertimento a non fare la sua stessa fine: così come (secondo lui) Atlantide sarebbe stata spazzata via da un uso smodato di tecnologie, anche noi dovremmo stare attenti a non finire come i presunti progenitori.
Hancock, tuttavia, non spiega in dettaglio come fare per evitare la catastrofe. La vaghezza, tuttavia, è una caratteristica che condivide con altri pseudostorici.
7. Vaghezza
Una delle caratteristiche tipiche della pseudostoria è, infatti, la vaghezza delle ipotesi presentate. A differenza degli storici seri, che tendono a fare ipotesi circostanziate, le tesi degli pseudostorici sono vaghe e spesso pongono più problemi di quanti ne risolvano.
Ad esempio: se le civiltà che conosciamo noi derivano da una civiltà più antica che è poi scomparsa, da dove si è evoluta quest’ultima? E che caratteristiche aveva? Oppure: se la nostra specie non si è evoluta naturalmente ma è stata creata in laboratorio da civiltà extraterrestri, come si sono evolute queste ultime? Come erano fatti questi alieni? Da dove venivano? Da Nibiru, da Orione, dalle Pleiadi?
8. Eterodisciplinarietà
Uso questo termine, che intende significare “altre discipline“ (sottinteso “tranne quelle filologiche o storico-archeologiche”), per indicare un fenomeno che ho visto accadere spesso nella pseudostoria. Se l’interdisciplinarietà incoraggia l’interazione di diverse discipline, l’eterodisciplinarietà invece si avvale di specialisti di vari campi del sapere, tranne quelle che veramente servirebbero a spiegare gli enigmi o presunti tali. Chi ha pretesa di riscrivere la storia, quindi, quasi mai ha dei titoli in storia. Nel migliore dei casi, lo pseudostorico ha titoli, ma in materie totalmente scorrelate da quelle umanistiche in generale. Nel peggiore, lo pseudostorico attribuisce a sé stesso e ai suoi colleghi titoli accademici a caso.
9. Atteggiamento ambiguo verso il mondo accademico
Come ho mostrato in precedenza, infatti, spesso gli pseudostorici tendono a millantare o comunque a ingigantire titoli accademici che non hanno e, quando possono, citano studi accademici per parassitare la credibilità della ricerca universitaria. Questo non impedisce loro, tuttavia, di denigrare poi il mondo accademico descrivendolo come chiuso di mente, dogmatico, quando non viene esplicitamente accusato di insabbiare la verità. Se un libro o un articolo contiene questo tipo di polemica (o quantomeno questo atteggiamento ambivalente), è molto probabile che ci si trovi davanti a un’opera di pseudostoria.
10. Personalizzazione
Mentre le ipotesi scientifiche finiscono per essere di dominio pubblico, le teorie pseudostoriche tendono invece ad avere un legame molto stretto con il loro fautore. Ognuno di loro presenta una “teoria” per certi versi simile a quella degli altri, ma abbastanza diversa da costituire la base per un prodotto editoriale unico. Tutto ciò che hanno in comune gli pseudostorici è quella di andare contro il mondo accademico (v. punto precedente), ma per il resto presentano delle teorie che si contraddicono a vicenda. Ad esempio: le piramidi sono state costruite da Atlantide o dagli alieni? Chi ha ragione?
Invece di provare a cercare le risposte con le evidenze, gli pseudostorici preferiscono continuare a realizzare e vendere prodotti editoriali incentrati sulla loro personale teoria, senza provare a discuterla, ma portandola avanti come un vero e proprio personal branding. A differenza dei veri divulgatori, che semplicemente spiegano al grande pubblico ciò che è comunemente accettato oppure le discussioni tra accademici che ci sono su una determinata questione, non badano ad altro che al loro prodotto. Se vengono menzionati altri studi, questi sono solo funzionali a conferire ulteriore credibilità alla loro teoria.
Considerazioni finali
Ancora una volta, non voglio alimentare il falso dualismo creato dagli pseudostorici. Non si tratta, cioè, di ragionare in termini di schieramenti, tipo storia “ufficiale” contro storia “alternativa”, ma distinguere le ipotesi tra quelle basate su evidenze concrete e metodi solidi e quelle infondate.
Conosco almeno un caso di autore non accademico, Giovanni Feo, che davvero faceva nuove scoperte. Nello specifico, ha trovato diversi luoghi preistorici in Toscana, tra cui uno chiamato Poggio Rota, in provincia di Grosseto. Perché non lo considero uno pseudostorico? Come ho già detto, non è questione di essere accademici o laureati, ma di usare dei metodi validi. Chiamo pseudostoria ciò che non si basa sulle prove. Feo, invece, andava alla ricerca delle prove, prendendosi anche cura dei siti che scopriva e che puntualmente segnalava alla Sovrintendenza. Aveva trovato il criterio secondo cui questi luoghi erano allineati tra loro e il suo metodo, a differenza di quelli farlocchi, funzionava e lo ha dimostrato.
Ritengo pseudostorici coloro che mostrano di avere altre priorità rispetto alla fingono di essere studiosi quando si comportano a tutti gli effetti come se fossero semplici venditori di prodotti editoriali che hanno come tema la storia. Anzi, che hanno come tema l’autore che combatte contro un mostro immaginario. La storia vera gioca un ruolo secondario e strumentale. Non solo, ma viene anche banalizzata e mercificata. I ragionamenti rigorosi, lunghi e complessi presenti nei testi accademici sono ridotti, nella pseudostoria, a meri slogan, che servono solo a vendere meglio.
Quindi, per distinguere la storia e la pseudostoria, le questioni fondamentali restano due. La prima è: si è davvero scoperto concretamente qualcosa di nuovo e dimostrato o si sta solo ipotizzando qualcosa di indimostrato e totalmente immaginario? In altre parole, ci sono prove concrete o sono solo ipotesi basate su altre ipotesi tirate per i capelli? La seconda è: l’ipotesi è presentata direttamente al grande pubblico come qualcosa di rivoluzionario, che riscrive la storia, portata avanti da una figura eroica che vuole riscrivere la storia imposta dal mondo accademico?
Non sapevo del metodo pseudostorico detto “realismo fantastico”, da te già citato nel post precedente. Ma chi ha deciso di chiamarlo così, il suo sedicente inventore? Lo chiedo perché per me, e per chiunque sia appassionato di letteratura del ‘900, il realismo fantastico (o magico) è uno stile/genere letterario che ha prodotto narrativa di altissimo livello (Borges, Calvino, Bontempelli…). Che la locuzione sia usata per indicare un metodo farlocco mi urta alquanto.
Buona notte 🙂
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Sì, è lo stesso. Quelli che inventarono l’espressione, Pauwels & Bergier, oltre che nel loro libro “Il mattino dei maghi”, fondarono una rivista, “Planète”, dedita apposta alla diffusione del “realismo fantastico”. In questa rivista scriveva anche Borges. Il “realismo fantastico” sembra voler basarsi sul credere un po’ troppo alla finzione.
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